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Storia e Critica

Chi sono i giovani architetti ?

Chi sono i giovani architetti ?
Non è una questione d’età.
Organizzare convegni e mostre a loro dedicate è cosa lodevole, ma il problema andrebbe spostato nell’analizzare gli anni di studio universitario, di cui tutti si lamentano ma nessuno pare curarsene. Sembra quasi che frequentare l’università sia cosa dovuta esclusivamente per avere posizione giuridica legittima affinchè si possa esercitare. Il dopo università è quasi una liberazione da una reclusione che, bene che vada, dura cinque anni. Stando così le cose, non sarebbe il caso di saltare a piè pari l’Università? Potremmo tutti fare gli architetti autodidatti.
Ad ognuno la libertà di scegliere.
Resta il fatto che chi decide di laurearsi debba avere anche coscienza che l’università è luogo preposto a preparare culturalmente, o almeno che così dovrebbe essere.
Da ogni parte, la critica è feroce: basta con i vecchi! Basta con i baroni! Basta con le parole enfatiche! Basta con tutto il vecchiume!
Ok, ma dove inizia il nuovo? E cos’è il nuovo? Perchè avere ancora frustrazioni da “crisi dell’architettura italiana” ?
E’ proprio vero che computer e nuovi mezzi per la progettazione hanno finalmente liberato i giovani architetti dalla rigidità d’impostazione del progetto? Dunque, era tutta colpa del tecnigrafo?
A mio parere, il tecnigrafo non era così dannoso per come lo si è voluto identificare. Il problema era – ed ancora è- la metodologia progettuale. Concordo con Prestinenza Puglisi in merito ai pericoli del formalismo decostruttivista che, causa l’approssimazione con cui se ne parla nelle università, sta perdendo la forza rigeneratrice dell’anticlassico, ma resta il fatto che l’anticlassicità stessa era e resta una forma mentis, che quindi prescinde dal mezzo che si usa per disegnare.
Torniamo all’Università. Dentro gli atenei italiani ci vorrebbero i computers, per stare al passo con quelli stranieri? Richiesta legittima, ma non basterebbe. Mi chiedo che differenza possa passare tra chi, di poche idee e concetti progettuali, disegnava con il tecnigrafo e chi, oggi, è un mago nell’uso del computer. Tecnigrafo o computer, se si è incapaci di elaborare lo spazio architettonico, non fa differenza.
Lo studente ha diritto a mezzi assolutamente all’avanguardia, ma ne ha altrettanto di docenti non più legati ad un sistema accademico per niente flessibile. Inutile nascondere che molti corsi universitari vengono intesi dai titolari quali proprietà privata, pulpito dal quale pontificare le proprie idee.
Fin qui, potrebbe anche non esserci qualcosa di male, ma quando lo studente viene obbligato a progettare secondo precisi dettami, allora non possiamo più parlare di libertà culturale, intendendo per essa la libertà di scelta ponderata sulle conoscenze.
Prestinenza Puglisi si chiede – in un articolo su Arch’it- se i giovani stiano realmente dicendo qualcosa di nuovo. Per la mia esperienza, dovendomi basare su quello che essi esprimono durante gli studi universitari , sarei categorico nel rispondere di no. Il più delle volte ci si trova a dibattere su progetti che hanno pretestuose velleità di essere novità. Perchè pretestuose? Semplice: chi li redige non conosce assolutamente i concetti che esso sembra esprimere. Ed il punto critico è sempre il medesimo: si continua a parlare in termini di “ forma” . Il disorientamento è totale, ma una volta usciti dall’Università ci si sente finalmente liberi, quasi depositari della verità. Attenzione: le cause vanno assolutamente ricercate anche nella responsabilità di chi è preposto ad insegnare architettura. Che sia chiaro.
Purtroppo, negli studenti neo architetti resta lo stato confusionale, figlio di nozionismo e non di cultura architettonica. Il risultato è desolante: avere poca cultura significa poterne fare pochissima.
Credo che sia molto facile addossare le colpe all’Università: non insegna niente, non stimola, non lascia segni tangibili – se non negativi-. Dunque, dopo il fatidico giorno della laurea, è tutto da rifare? Sembra proprio di no, se è vero che chiunque sembra avere la pozione magica che risolve ogni problematica, anzi, l’unica problematica che, nozionisticamente, si conosce: la crisi dell’architettura italiana e la baronia di pochi.
E’ penoso dovere constatare che la forza dirompente della ricerca sui linguaggi continui ad essere ridotta a motivo di lotta tra due schieramenti, i vecchi architetti ed i giovani architetti.
Ma non sarebbe il caso di confrontarsi all’interno delle Università? Non è lì che i giovani, a sentir loro, trovano il peggio? Bene, sicuramente c’è qualcosa che non quadra se tutti o quasi usciamo insoddisfatti dalle Università. Ma c’è qualcuno che ha il coraggio di andare a domicilio, di porre a chi di dovere le proprie idee e mostrarne i diversi contenuti rispetto a quelli accademici? Aspettiamo tutti un garante o non sappiamo autogarantirci?
Più probabile è l’ipotesi che la “cultura dei buoni rapporti” vinca nettamente sulla cultura vera. Certamente, la diplomazia comporta una serie di vantaggi a cui pochissimi sono propensi a rinunciare. Non pestiamoci i piedi, perché oggi tocca a te e domani tocca a me. Tutti splendidamente felici, ipocritamente compromessi facendo finta di non esserlo.
Chi scrive non ha mai amato il vecchiume, ma intendendolo quale forma mentis, non come età anagrafica. Era forse vecchio Portoghesi quando inventò il Post Modern?
No, era nel pieno della sua attività. Di contro, pur se settantenne, non è vecchio Gehry, sulla scia di Michelucci, Le Corbusier, Wright.
Vecchio è tutto ciò che limita l’elaborazione mentale, tutto ciò che pretende di essere verità assoluta. Vecchi sono molti giovani che non conoscono ma si atteggiano. Vecchio è chiunque non ha il coraggio di mettersi in discussione, di accettare le critiche, di considerarle stimoli per la sua stessa crescita.
Nell’Università si formano gli architetti, intendendo anche il lato più deteriore della formazione. Le cose sono due: o- noi tutti laureati negli ultimi quindici anni- siamo una generazione di stampo “genio incompreso” , oppure i nostri docenti sono stati e continuano ad essere aguzzini.
I falsi alibi consistono nello scaricare le responsabilità sull’università che, sicuramente, tante ne ha, ma che nessuno ha il coraggio di evidenziare in un confronto aperto.
Guai ad attaccare un docente o, addirittura, l’istituzione. Si romperebbero sottili equilibri di situazioni di comodo. L’assurdità maggiore è constatare che tanti studenti“pecorelle” si trasformano in “lupi” non appena usciti dalle facoltà.
Non credo alle frustrazioni da ricatto che il professore incute agli studenti.
Chi ha consapevolezza dei propri mezzi non si lascia ingabbiare: reagisce. Indubbiamente, se è vero che sono gli studenti a fare l’Università, altrettanto vero è che le loro opinioni sui docenti debbano essere prese in considerazione con molta attenzione. Serpeggia l’insoddisfazione? Bene, mettiamola palesemente alla luce, chiediamo confronti a chi di dovere, domandandogli il senso del programma del corso.
Personalmente, in veste di docente, mi sono sempre messo in discussione- quello che è il vero ruolo di chi è preposto a parlare d’architettura- con i miei studenti ed è stato il lavoro più fruttifero che ci si potesse attendere. Ne sono usciti timori, pareri, dubbi, idee, considerazioni, consigli. E’ venuta fuori la vera anima dello studente, positiva o negativa che fosse.
Poco importa se pochi baroni hanno monopolizzato la cultura perché, in realtà, ci si è lasciati monopolizzare in quanto difficilmente si è usciti dall’ambito del “subire” cultura per intraprendere la strada del “fare” cultura.
Se è vero che la formazione professionale la si ha dall’Università, il buco nero deve essere cercato in esse. Bene, allora non c’è altro da fare che avere il coraggio di affrontare il problema con i giusti criteri. E’ giusto essere critici di un sistema, ma altrettanto lo è se di questo sistema si analizzano anche le positività. Se poi è il sistema a rifiutare il confronto, nulla più da dire: si sa, chi è assente ha sempre torto.

(Paolo G.L. Ferrara – 10/8/2000)

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