Daniel Libeskind si è fatto ammirare per il Museo Ebraico di Berlino. A tal punto che il progetto per il museo dedicato a Feliz Nussbaum ne sembra una copia in scala ridotta: è l’architetto ad averlo ridotto di scala e reimpiantato in altro luogo l’opera tanto decantata?
Comunque sia, l’errore c’è, ed è incontestabile (provocazione: attendo controprove) che sia dell’architetto, nello specifico, il Sig. Daniel Libeskind.
Quale errore? La mancanza di continuità tra significati linguistici della funzione museo ebraico – con annessi e connessi riferiti alla infame tragedia subita- e sua localizzazione. Attenzione: se Ghery continuerà a riproporre i suoi lessici in ogni luogo e per ogni luogo e se Libeskind si ripeterà nella impostazione Jewis Museum, la loro anticlassicità scadrà nella codificazione. Sarebbe realmente un autogol irrimediabile, perchè avvenuto a tempo quasi scaduto, poichè la vittoria nella partita della liberazione dalla repressione è cosa praticamente fatta, in memoria di tutti gli anticlassici della storia, da Filocle in poi.
La democratizzazione dell’architettura, libera dagli stereotopi dell’accademismo razionalista e dalle malsane esalazioni post moderne, è oramai fatto quasi compiuto, aggressivo, incurante, eccitante, allegro, dinamicamente organico ai nostri umori per una vita al di fuori delle scatolette.
Va da sè che il lessico anticlassico , per sua natura, offra infinite possibilità di invenzione spaziale, ad inverare la percezione dello spazio attraverso l’architettura. Infinite possibilità: l’architettura distribuita nello spazio e non in superficie , a dirla con Loos : < questa è la vera rivoluzione architettonica: la soluzione di un tracciato nello spazio>.
Libeskind non crea saette di bidimensione per il Museo Feliz Nussbaum. Due figure geometriche rettangolari che s’incastrano: la minore trasforma il suo angolo d’incidenza verso il corpo esistente adeguandosi ad esso, quasi appoggiata; prosegue e sfonda all’incrocio con la figura rettangolare maggiore, la penetra e la sagoma, ma non la sconquassa, non la contorce. Lettura parallela nella terza dimensione: i volumi , delineati dall’angolo perfettamente a piombo, restano assolutamente identificabili della loro proiezione bidimensionale. Li distingue la differente altezza – il minore sovrasta il maggiore e ne rimarca lo sfondamento bidimensionale- e il differente materiale usato, titanio che sfonda legno.
Il rettangolo maggiore subisce ulteriore onta, sezionato di netto dall’ulteriore, sottilissimo rettangolo – a sua volta scollato nella parte terminale- in cemento, volume più alto di tutti gli altri e base d’appoggio per il minore dei rettangoli /parallelepipedi .
Dunque, siamo in presenza di volumetrie ben definite (bidimensione e tridimensione) tra loro incastrate a dimostrazione della temporalità dello spazio dinamico, pur in presenza di volumi quasi stereometrici.
Libeskind li nega e ne aggredisce gli angoli (si veda foto del volume in legno), sezionando i piani di calpestio della soletta .
Chiara la volontà di assemblare volumi per dare senso alla sinergia anticlassica che è in loro insita. Dimostrazione che la figura geometrica non è esclusiva proprietà dell’Accademia (del resto, Terragni e Scharoun lo urlavano già settanta anni fa…).
Sembrerebbe tutto positivo, sulla scia di una continuità linguistica che è propria di Libeskind.
Torno all’errore di cui all’inizio.
Perchè riproporre una riduzione di scala del Jewis Museum?
Si solleva l’obiezione che non si tratta della riproposizione in quanto il Jewis è saetta continua, mentre l’opera qui esposta è incastro di volumi?
Accettabile, ma solo se s’intende l’architettura bidimensionale (quindi, la non architettura);
Gli squarci violenti nei volumi (e non dei volumi) , e le lacerazioni da cui penetra la luce sono assolutamente riferibili alla poetica del Jewis Museum ed ai suoi significati.
La tridimensione e la temporalità spaziale sono di netta derivazione Jewis ma, probabilmente, solo rispetto la struttura architettonica, non in merito ai significati semantici.
Libeskind ha definito l’architettura irtaliana in < …stato di rigor mortis> ; chi scrive ha applaudito a ciò, ne ha condiviso totalmente i significati.
Ma sia chiaro che tutti coloro i quali si riconoscono (e fanno) nell’anticlassicismo, devono essere i più attenti critici di quanto viene espresso con esso, cercando di strappare la stessa anticlassicità allo stato di rigor mortis in cui potrebbe cadere se non continuerà a comprendere che le sue potenzialità d’applicazione sono infinite. Ci si aspetta continuità di studio. Il linguaggio di un architetto non va riconosciuto dalle forme dei suoi prodotti, bensì dalla capacità di diversificarle a seconda delle situazioni, lasciando che sia sempre evidente la tematica di base, il concetto espressivo. F.Ll. Wright e le sue architetture lo dimostrano: la sua grandezza sta tutta lì.
(Paolo G.L. Ferrara – 5/6/2000)
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